Percorso tematico
Un formidabile uovo. Dino Buzzati: un osservatore speciale
Il rapporto tra Dino Buzzati (1906-1972) – scrittore, giornalista, autore – e la Fiera Campionaria si dipana lungo un arco temporale molto ampio (dalla fine degli anni Quaranta agli anni Settanta) e trova esito in numerosi articoli pubblicati sul «Corriere della Sera», racconti scritti per l’house organ dell’Ente, reportage, tra cui si ricordano: Quelle 18 notti, 1949; Agguati in Fiera alle persone serie, 1962; Incompetente alla fiera ha modo di consolarsi, 1962; L’insonne notte dell’11 aprile, 1964; Tra le cose piaciute, anche la primavera, 1965; Le favole del duemila in un mercato senza frontiere, 1967; Un formidabile uovo, 1968; Il grande operatore, 1970.
Parole che hanno accompagnato lettori e spettatori alla scoperta di una manifestazione centrale per la città e i suoi abitanti fin dalla sua creazione, tra le luci e le ombre proiettate, nei diversi decenni, da evoluzioni, svolte, grandi cambiamenti. Di cui la Fiera si è fatta interprete, spesso addirittura anticipandone gli echi.
Tra tutti gli scritti di Buzzati, quello che forse descrive con maggiore poesia il legame simbiotico tra Milano e la sua Fiera, disegnandone magistralmente l’orizzonte identitario, è l’articolo comparso sul «Corriere della Sera» il 14 aprile 1968. Quale modo migliore, per celebrare l’anniversario dei cinquant’anni dalla morte dello scrittore, se non ripercorrendone i brani più significativi?
Il rapporto tra Dino Buzzati (1906-1972) – scrittore, giornalista, autore – e la Fiera Campionaria si dipana lungo un arco temporale molto ampio (dalla fine degli anni Quaranta agli anni Settanta) e trova esito in numerosi articoli pubblicati sul «Corriere della Sera», racconti scritti per l’house organ dell’Ente, reportage, tra cui si ricordano: Quelle 18 notti, 1949; Agguati in Fiera alle persone serie, 1962; Incompetente alla fiera ha modo di consolarsi, 1962; L’insonne notte dell’11 aprile, 1964; Tra le cose piaciute, anche la primavera, 1965; Le favole del duemila in un mercato senza frontiere, 1967; Un formidabile uovo, 1968; Il grande operatore, 1970.
Parole che hanno accompagnato lettori e spettatori alla scoperta di una manifestazione centrale per la città e i suoi abitanti fin dalla sua creazione, tra le luci e le ombre proiettate, nei diversi decenni, da evoluzioni, svolte, grandi cambiamenti. Di cui la Fiera si è fatta interprete, spesso addirittura anticipandone gli echi.
Tra tutti gli scritti di Buzzati, quello che forse descrive con maggiore poesia il legame simbiotico tra Milano e la sua Fiera, disegnandone magistralmente l’orizzonte identitario, è l’articolo comparso sul «Corriere della Sera» il 14 aprile 1968. Quale modo migliore, per celebrare l’anniversario dei cinquant’anni dalla morte dello scrittore, se non ripercorrendone i brani più significativi?
La fiera nelle parole di Dino Buzzati
La Fiera è il respiro di Milano (…). Dodici giorni per immagazzinare ossigeno, trecentocinquantatrè giorni per spenderlo in lavoro.
La Fiera è il respiro di Milano (…). Dodici giorni per immagazzinare ossigeno, trecentocinquantatrè giorni per spenderlo in lavoro.
La Fiera è il Natale di Milano, il suo vero periodo di feste. Tutto il resto rimane come lietamente sospeso, anche le rabbie, i dispiaceri, i debiti, le scadenze di consegna. Sì, ci rivedremo dopo la Fiera, ma certo ne parleremo dopo la Fiera, intanto lasciamo passare la Fiera, ma si il dottore è in Fiera, penso che l’ingegnere sia in Fiera, il commendatore deve essere in Fiera.
La Fiera è la febbre di Milano. C’è qualcuno che per questa febbre si impressiona, gli viene perfino una forma di allergia e di angoscia, e allora fa le valigie e se ne va, per ritornare a febbrone già smaltito. I milanesi magari dicono di no eppure provano una viziosa soddisfazione a vedere la città congestionata in una specie di delirio, gli alberghi zeppi, i ristoranti con le code, i cinema coi soli posti in piedi, e tutte quelle automobili con targhe rare e incomprensibili, tutte quelle macchine che fanno valanga e asma ai semafori, i raffinati perfino ci prendono gusto: dall’ufficio a casa, che di solito ci metto dieci dodici minuti, oggi mi ci è voluta un’ora e mezzo perdio, questa sì che si chiama una metropoli.
La Fiera è il Natale di Milano, il suo vero periodo di feste. Tutto il resto rimane come lietamente sospeso, anche le rabbie, i dispiaceri, i debiti, le scadenze di consegna. Sì, ci rivedremo dopo la Fiera, ma certo ne parleremo dopo la Fiera, intanto lasciamo passare la Fiera, ma si il dottore è in Fiera, penso che l’ingegnere sia in Fiera, il commendatore deve essere in Fiera.
La Fiera è la febbre di Milano. C’è qualcuno che per questa febbre si impressiona, gli viene perfino una forma di allergia e di angoscia, e allora fa le valigie e se ne va, per ritornare a febbrone già smaltito. I milanesi magari dicono di no eppure provano una viziosa soddisfazione a vedere la città congestionata in una specie di delirio, gli alberghi zeppi, i ristoranti con le code, i cinema coi soli posti in piedi, e tutte quelle automobili con targhe rare e incomprensibili, tutte quelle macchine che fanno valanga e asma ai semafori, i raffinati perfino ci prendono gusto: dall’ufficio a casa, che di solito ci metto dieci dodici minuti, oggi mi ci è voluta un’ora e mezzo perdio, questa sì che si chiama una metropoli.
Come non pensare alla figura del notaio Ernesto Montironi, il personaggio di fantasia che Dino Buzzati inventa e descrive nel racconto “Quelle 18 notti”, scritto per la Rassegna tecnico-commerciale dell’Ente Fiera (anno II. Numero 2, pag. 40-42) per descrivere la caleidoscopica trasformazione di Milano in occasione della Fiera del 1949, vent’anni prima ma con eguale senso di vorticosità ed energia che sferza i giorni e le notti di Milano, tra il turbinare di automobili e persone. Da cui, appunto, il dott. Montironi cerca invano di fuggire, anelando poi, dal suo rifugio solitario in campagna, quella vita scoppiettante da cui ora è lontano:
“Ecco i lumi della Fiera, li riconosce. Finalmente l’austero notaio, sia pure coi soli occhi, si aggira per i viali, si diverte alla fantasmagoria delle mostre, si ferma a leggere le spettacolose scritte, si attarda un poco troppo a esaminare la cassiera di una birreria all’aperto. Curioso, adesso che vede tutto da lontano, le cose gli sembrano diverse. Ma sì, è Milano anche quella, perdio, non è meno Milano delle Tre Vie o dei quattro
decrepiti Omenoni; Campionaria e via Brisa, a ben guardare, hanno la stessa faccia identica, solo che una è piena di polvere e di rughe e l’altra invece giovane: violenta ed eccessiva come qualsiasi vera gioventù”.
Come non pensare alla figura del notaio Ernesto Montironi, il personaggio di fantasia che Dino Buzzati inventa e descrive nel racconto “Quelle 18 notti”, scritto per la Rassegna tecnico-commerciale dell’Ente Fiera (anno II. Numero 2, pag. 40-42) per descrivere la caleidoscopica trasformazione di Milano in occasione della Fiera del 1949, vent’anni prima ma con eguale senso di vorticosità ed energia che sferza i giorni e le notti di Milano, tra il turbinare di automobili e persone. Da cui, appunto, il dott. Montironi cerca invano di fuggire, anelando poi, dal suo rifugio solitario in campagna, quella vita scoppiettante da cui ora è lontano:
“Ecco i lumi della Fiera, li riconosce. Finalmente l’austero notaio, sia pure coi soli occhi, si aggira per i viali, si diverte alla fantasmagoria delle mostre, si ferma a leggere le spettacolose scritte, si attarda un poco troppo a esaminare la cassiera di una birreria all’aperto. Curioso, adesso che vede tutto da lontano, le cose gli sembrano diverse. Ma sì, è Milano anche quella, perdio, non è meno Milano delle Tre Vie o dei quattro
decrepiti Omenoni; Campionaria e via Brisa, a ben guardare, hanno la stessa faccia identica, solo che una è piena di polvere e di rughe e l’altra invece giovane: violenta ed eccessiva come qualsiasi vera gioventù”.
La Fiera è la febbre ma è anche il termometro che misura la salute di Milano e dell’Italia. Molto tempo prima che si pronuncino le specule e le sibille dell’economia ufficiale, la Fiera vi sa dire se farà bel tempo o burrasca, se gli affari fioriranno e se fioriranno invece i protesti cambiari.
La Fiera è il domani di Milano. Alla Fiera c’è quello che verrà costruito, si parla di quello che verrà prodotto, si discute quello che si venderà si comprerà si esporterà si importerà.
La Fiera è il porto di Milano in certo senso il più grande porto d’Italia. Alla Fiera quest’anno approdano con le loro bandiere sessantacinque nazioni, e per la prima volta Algeria, Ecuador, Salvador, Gabon, Honduras, Indonesia, Nicaragua e Repubblica centrafricana. Queste le rappresentanze ufficiali. Ma gli espositori arrivano da ben novanta paesi diversi.
La Fiera è la vacanza di Milano. Benché la gente si affanni di più, corra di più, si agiti di più, telefoni di più, fatichi di più, c’è la precisa sensazione che siano giorni fuori regola, appunto una specie di vacanza paradosso che sospende il solito tran tran, diffonde un’aria di liberazione e mette in circolazione allegria.
La Fiera è il genio di Milano, qui per dodici giorni si concentrano l’intelligenza, la sapienza e la volontà che inventeranno nuove fantastiche fibre sintetiche, nuovi marcangegni per i viaggetti spaziali, nuove macchine per costruire città, nuovi apparecchi per mungere le balene e anche nuovi spazzolini da denti girevoli a due fasi, nuove bambole semoventi che recitano Garcia Lorca, nuovi rasoi elettrici a umido, nuovi portabagagli polivalenti per automobile (…).
La Fiera è la febbre ma è anche il termometro che misura la salute di Milano e dell’Italia. Molto tempo prima che si pronuncino le specule e le sibille dell’economia ufficiale, la Fiera vi sa dire se farà bel tempo o burrasca, se gli affari fioriranno e se fioriranno invece i protesti cambiari.
La Fiera è il domani di Milano. Alla Fiera c’è quello che verrà costruito, si parla di quello che verrà prodotto, si discute quello che si venderà si comprerà si esporterà si importerà.
La Fiera è il porto di Milano in certo senso il più grande porto d’Italia. Alla Fiera quest’anno approdano con le loro bandiere sessantacinque nazioni, e per la prima volta Algeria, Ecuador, Salvador, Gabon, Honduras, Indonesia, Nicaragua e Repubblica centrafricana. Queste le rappresentanze ufficiali. Ma gli espositori arrivano da ben novanta paesi diversi.
La Fiera è la vacanza di Milano. Benché la gente si affanni di più, corra di più, si agiti di più, telefoni di più, fatichi di più, c’è la precisa sensazione che siano giorni fuori regola, appunto una specie di vacanza paradosso che sospende il solito tran tran, diffonde un’aria di liberazione e mette in circolazione allegria.
La Fiera è il genio di Milano, qui per dodici giorni si concentrano l’intelligenza, la sapienza e la volontà che inventeranno nuove fantastiche fibre sintetiche, nuovi marcangegni per i viaggetti spaziali, nuove macchine per costruire città, nuovi apparecchi per mungere le balene e anche nuovi spazzolini da denti girevoli a due fasi, nuove bambole semoventi che recitano Garcia Lorca, nuovi rasoi elettrici a umido, nuovi portabagagli polivalenti per automobile (…).
La Fiera stessa però è una bandiera sfidavento di Milano, la quale sventola così bene c così in alto che hanno imparato a conoscerla e a stimarla anche paesi lontanissimi e favolosi dove senza la Fiera il nome di Milano non sarebbe mai neppure pronunciato, anche il Camerun, la Costa Rica, il Gabon, il Ghana, il Sudan, lo Zambia, il Ceylon, il Madagascar e la Nigeria.
La Fiera è la serietà di Milano. Se una volta la Fiera si lasciava un po’ prendere la mano trasformandosi in una sagra paesana con famigliole bivaccanti, cartacce oleate e bucce d’arancia, ragazzetti scatenati alla razzia di dépliants, muggiti di altoparlanti e nembi di canzonette ubriache, da vari anni la Fiera si è messa a rigare dritto, non grida più, non bercia più, non si sbrodola più, non si ingozza più. (…)
Sempre meno spettacolo, sempre più sostanza.
(…) la Fiera non ha più tracce di imbonimenti ciarlataneschi e di luna park e, a costo magari di deludere qualche perdigiorno, è diventata «la rigorosa espressione di un tecnicismo organizzativo al servizio degli interessi dell’economia». Ragione per cui all’estero viene considerata e rispettata sempre di più, e alla stazione centrale e agli aeroporti sono segnalati sempre più arrivi di personaggi importanti che desiderano venire al sodo anziché risolvere il viaggio in simpatiche chiacchiere, mangiate e bevute.
Ma sì, la Fiera è anche la poesia di Milano. (…) Il vero potente originale patos di Milano — la quale spesso ha il coraggio di confessarsi una delle più brutte città del mondo — si va spostando alle periferie industriali, ai quartieri di acciaio e di vetro, alle autorimesse giganti, ai raccordi autostradali, alle fantasmagoriche raffinerie che appuzzano il globo, alle cattedrali metalliche fumiganti di foschi vapori. E quella bruttezza così disarmata e utilitaria, quella fisionomia disadorna ma schietta, quella fretta di fare, di guadagnare, di arrivare, quell’affanno anche che tanti le rimproverano, sono appunto gli stessi della Fiera, che non pretende certo di essere bella, elegante, artistica e romantica, eppure esprime bene i travagli, le speranze e le illusioni di un mondo che crede ostinatamente nel lavoro.
Quest’anno infine la Fiera è l’uovo di Pasqua di Milano. Un uovo che si aprirà da solo alle ore nove del mattino senza trombe né pennacchi né cerimonie (le autorità arriveranno dopo due giorni con alla testa il ministro Andreotti), si vedrà soltanto la bandiera levarsi in cima al grande pennone. Sùbito, la folla si precipiterà a vedere che cosa c’è dentro. Ogni uovo che si rispetti nasconde nella pancia una sorpresa.
In questo uovo così immenso le sorprese, dicono, sono migliaia e migliaia.
(Dino Buzzati, «Corriere della Sera», 14 aprile 1968)
La Fiera stessa però è una bandiera sfidavento di Milano, la quale sventola così bene c così in alto che hanno imparato a conoscerla e a stimarla anche paesi lontanissimi e favolosi dove senza la Fiera il nome di Milano non sarebbe mai neppure pronunciato, anche il Camerun, la Costa Rica, il Gabon, il Ghana, il Sudan, lo Zambia, il Ceylon, il Madagascar e la Nigeria.
La Fiera è la serietà di Milano. Se una volta la Fiera si lasciava un po’ prendere la mano trasformandosi in una sagra paesana con famigliole bivaccanti, cartacce oleate e bucce d’arancia, ragazzetti scatenati alla razzia di dépliants, muggiti di altoparlanti e nembi di canzonette ubriache, da vari anni la Fiera si è messa a rigare dritto, non grida più, non bercia più, non si sbrodola più, non si ingozza più. (…)
Sempre meno spettacolo, sempre più sostanza.
(…) la Fiera non ha più tracce di imbonimenti ciarlataneschi e di luna park e, a costo magari di deludere qualche perdigiorno, è diventata «la rigorosa espressione di un tecnicismo organizzativo al servizio degli interessi dell’economia». Ragione per cui all’estero viene considerata e rispettata sempre di più, e alla stazione centrale e agli aeroporti sono segnalati sempre più arrivi di personaggi importanti che desiderano venire al sodo anziché risolvere il viaggio in simpatiche chiacchiere, mangiate e bevute.
Ma sì, la Fiera è anche la poesia di Milano. (…) Il vero potente originale patos di Milano — la quale spesso ha il coraggio di confessarsi una delle più brutte città del mondo — si va spostando alle periferie industriali, ai quartieri di acciaio e di vetro, alle autorimesse giganti, ai raccordi autostradali, alle fantasmagoriche raffinerie che appuzzano il globo, alle cattedrali metalliche fumiganti di foschi vapori. E quella bruttezza così disarmata e utilitaria, quella fisionomia disadorna ma schietta, quella fretta di fare, di guadagnare, di arrivare, quell’affanno anche che tanti le rimproverano, sono appunto gli stessi della Fiera, che non pretende certo di essere bella, elegante, artistica e romantica, eppure esprime bene i travagli, le speranze e le illusioni di un mondo che crede ostinatamente nel lavoro.
Quest’anno infine la Fiera è l’uovo di Pasqua di Milano. Un uovo che si aprirà da solo alle ore nove del mattino senza trombe né pennacchi né cerimonie (le autorità arriveranno dopo due giorni con alla testa il ministro Andreotti), si vedrà soltanto la bandiera levarsi in cima al grande pennone. Sùbito, la folla si precipiterà a vedere che cosa c’è dentro. Ogni uovo che si rispetti nasconde nella pancia una sorpresa.
In questo uovo così immenso le sorprese, dicono, sono migliaia e migliaia.
(Dino Buzzati, «Corriere della Sera», 14 aprile 1968)