Percorso tematico
Fotografie dal futuro – La Fiera del 1985 negli scatti di Gianni Berengo Gardin, tra colore e mondo che verrà
La Fiera Campionaria del 1985, la 63esima dalla sua fondazione, fu un’edizione del tutto particolare, ampiamente raccontata e analizzata in diversi contesti.
Il suo ruolo di spartiacque tra un passato tradizionale e un futuro avveniristico venne sottolineato in molti modi, a partire da quello più evidente, la trasformazione del suo nome, prima tessera di una nuova identità, e del tentativo di rinnovamento di un format che andava aggiornato per stare al passo con i tempi.
Dei grandi fotografi che indagarono i padiglioni di quell’anno, con il compito specialissimo di ricavarne un reportage sui generis da tramandare come testimonianza d’autore di un passaggio epocale – Berengo Gardin e Basilico in particolare – restano nuclei cospicui di scatti, di cui molto si è detto e scritto (si veda, su tutto, la monografia La Grande Fiera, 1985).
Di questo corpus prezioso, curioso è in particolare lo sguardo rivolto da Berengo Gardin al padiglione in cui, con grandi aspettative, andò in scena il futuro.
La Fiera Campionaria del 1985, la 63esima dalla sua fondazione, fu un’edizione del tutto particolare, ampiamente raccontata e analizzata in diversi contesti.
Il suo ruolo di spartiacque tra un passato tradizionale e un futuro avveniristico venne sottolineato in molti modi, a partire da quello più evidente, la trasformazione del suo nome, prima tessera di una nuova identità, e del tentativo di rinnovamento di un format che andava aggiornato per stare al passo con i tempi.
Dei grandi fotografi che indagarono i padiglioni di quell’anno, con il compito specialissimo di ricavarne un reportage sui generis da tramandare come testimonianza d’autore di un passaggio epocale – Berengo Gardin e Basilico in particolare – restano nuclei cospicui di scatti, di cui molto si è detto e scritto (si veda, su tutto, la monografia La Grande Fiera, 1985).
Di questo corpus prezioso, curioso è in particolare lo sguardo rivolto da Berengo Gardin al padiglione in cui, con grandi aspettative, andò in scena il futuro.
L'"isola ottica"
Berengo si sofferma infatti, e a lungo, sul padiglione SIP – RAI, ubicato vicino al Centro internazionale scambi e incontri (CISI).
Le due aziende avevano creato in occasione della “Fiera del Possibile” uno speciale percorso innovativo per mostrare le nuove funzionalità offerte dalla fibra ottica, realizzando nei fatti il primo esperimento per trasmettere parole, suoni, immagini.
L’infrastruttura realizzata vedeva lo stand SIP al centro di un’enorme struttura a stella, da cui si diramavano le fibre a coprire tutta l’estensione della fiera.
Per farlo, erano state connesse tra loro 300 postazioni con 640 chilometri di cavo ottico. Per dare un’idea della quantità impressionante dei dati trasmissibili, basti ricordare che su una sola fibra ottica – e in ogni chilometro ne correvano da 20 a 200 – erano in grado di viaggiare 10.000 conversazioni telefoniche.
L’Ansa racconta, ripresa sul Corriere della Sera dell’11 aprile 1985, di oltre trenta videotelefoni messi a disposizione per gli espositori, precursori delle future comunicazioni complete e avanzate, e di sessantaquattro televisori in grado di trasmettere pagine di Videotel. Venti invece i canali di trasmissione immagine per ogni postazione, dedicati ai servizi della RAI (i canali 1,2,3), alle principali emittenti italiane (Canale 5, Italia1, Rete 4) e straniere (EuroTV, la francese TF1, la tedesca ZDF, il programma statunitense per le basi NATO, SETAF) e ad alcune trasmissioni inedite (come lo Speciale RAI Fiera realizzato in collaborazione con la SIP, un programma non stop 10-17 con notizie sulla manifestazione, documentari e programmi regionali di RAI 3) oltre a programmi interattivi con la possibilità di accelerare, rallentare, fermare la visione.
Un progetto complesso, attuato grazie a un’ampia rete di collaborazioni – in particolare con CSELT, Italtel e gruppo Sirti, tutte società del gruppo IRI- STET – come Giovanni Caprara, il 19 marzo del 1985, evidenzia ancora sul Corriere della Sera.
Berengo si sofferma infatti, e a lungo, sul padiglione SIP – RAI, ubicato vicino al Centro internazionale scambi e incontri (CISI).
Le due aziende avevano creato in occasione della “Fiera del Possibile” uno speciale percorso innovativo per mostrare le nuove funzionalità offerte dalla fibra ottica, realizzando nei fatti il primo esperimento per trasmettere parole, suoni, immagini.
L’infrastruttura realizzata vedeva lo stand SIP al centro di un’enorme struttura a stella, da cui si diramavano le fibre a coprire tutta l’estensione della fiera.
Per farlo, erano state connesse tra loro 300 postazioni con 640 chilometri di cavo ottico. Per dare un’idea della quantità impressionante dei dati trasmissibili, basti ricordare che su una sola fibra ottica – e in ogni chilometro ne correvano da 20 a 200 – erano in grado di viaggiare 10.000 conversazioni telefoniche.
L’Ansa racconta, ripresa sul Corriere della Sera dell’11 aprile 1985, di oltre trenta videotelefoni messi a disposizione per gli espositori, precursori delle future comunicazioni complete e avanzate, e di sessantaquattro televisori in grado di trasmettere pagine di Videotel. Venti invece i canali di trasmissione immagine per ogni postazione, dedicati ai servizi della RAI (i canali 1,2,3), alle principali emittenti italiane (Canale 5, Italia1, Rete 4) e straniere (EuroTV, la francese TF1, la tedesca ZDF, il programma statunitense per le basi NATO, SETAF) e ad alcune trasmissioni inedite (come lo Speciale RAI Fiera realizzato in collaborazione con la SIP, un programma non stop 10-17 con notizie sulla manifestazione, documentari e programmi regionali di RAI 3) oltre a programmi interattivi con la possibilità di accelerare, rallentare, fermare la visione.
Un progetto complesso, attuato grazie a un’ampia rete di collaborazioni – in particolare con CSELT, Italtel e gruppo Sirti, tutte società del gruppo IRI- STET – come Giovanni Caprara, il 19 marzo del 1985, evidenzia ancora sul Corriere della Sera.
Il futuro è già qui
L’“isola ottica”, la prima realizzata in Italia, era stata a ragione una delle grandi attrazioni della Campionaria di quell’anno. Ma non era l’unico vanto. Nel 1985 l’ente Fiera aveva dato origine al Milanfair Overseas Exhibitions, il braccio operativo a cui era affidato il compito di organizzare all’estero manifestazioni fieristiche. Tra tutte, in quell’anno, una si era distinta in particolare: quella che vide la luce a Tsukuba, in Giappone. Una esposizione mondiale a cui anche l’Italia partecipò, grazie al lavoro della Fiera di Milano.
A legare i due eventi non fu però solo l’organizzazione aziendale. La cerimonia inaugurale della Campionaria milanese venne infatti trasmessa in diretta via satellite a Tsukuba, attraverso un gigantesco display video con 450.000 pixel di risoluzione, installato al centro del quartiere dell’expo: il Jumbrotron, un apparecchio alto come un palazzo di dodici piani, con uno schermo di circa mille metri quadrati, il cui funzionamento era garantito dalle fibre ottiche e l’audio trasmesso da dodici altoparlanti con un raggio di portata delle trasmissioni di oltre un chilometro.
L’“isola ottica”, la prima realizzata in Italia, era stata a ragione una delle grandi attrazioni della Campionaria di quell’anno. Ma non era l’unico vanto. Nel 1985 l’ente Fiera aveva dato origine al Milanfair Overseas Exhibitions, il braccio operativo a cui era affidato il compito di organizzare all’estero manifestazioni fieristiche. Tra tutte, in quell’anno, una si era distinta in particolare: quella che vide la luce a Tsukuba, in Giappone. Una esposizione mondiale a cui anche l’Italia partecipò, grazie al lavoro della Fiera di Milano.
A legare i due eventi non fu però solo l’organizzazione aziendale. La cerimonia inaugurale della Campionaria milanese venne infatti trasmessa in diretta via satellite a Tsukuba, attraverso un gigantesco display video con 450.000 pixel di risoluzione, installato al centro del quartiere dell’expo: il Jumbrotron, un apparecchio alto come un palazzo di dodici piani, con uno schermo di circa mille metri quadrati, il cui funzionamento era garantito dalle fibre ottiche e l’audio trasmesso da dodici altoparlanti con un raggio di portata delle trasmissioni di oltre un chilometro.
Nella cronaca giornalistica, così si descriveva l’emozione del momento:
“Un vento leggero gonfia le bandiere degli ottantuno Paesi, al centro della fiera. C’è un sole caldo, i picchetti in alta uniforme, sciabole scintillanti che si levano al passare del presidente del Consiglio. Dall’altra parte del mondo, su uno schermo gigantesco impiantato nel cuore dell’EXPO di Tsukuba in Giappone, le immagini devono apparire dolcemente mediterranee. (…) Quando le foto ufficiali finiscono, ecco il tradizionale: tutte le sirene entrano in funzione suono lacerante (…). La sessantreesima Campionaria è cominciata”. (Riccardo Gallo, «Corriere della Sera», 15 aprile 1985)
Se il futuro era arrivato, il Giappone si candidava dunque a interpretarlo da protagonista.
E Milano era in prima linea per accoglierlo, come Berengo Gardin osservava attraverso il suo occhio allenato. I suoi scatti restituiscono, oltre allo stupore curioso della folla, la sua particolare visione della modernità espressa dalla Fiera – in sé e per sé già una città nella città, in movimento e in continuo mutamento – obbligata a guardare verso un futuro futuribile, con un misto di attesa e apprensione.
La chiusa perfetta per descrivere il terreno emotivo di quei giorni, è dettata dalle parole perfette di Giuseppe Pontiggia sulle pagine dello stesso quotidiano: “La felicità della Fiera è di entrare nella città del Futuro, lo sgomento è di averne avuto un anticipo”.
Nella cronaca giornalistica, così si descriveva l’emozione del momento:
“Un vento leggero gonfia le bandiere degli ottantuno Paesi, al centro della fiera. C’è un sole caldo, i picchetti in alta uniforme, sciabole scintillanti che si levano al passare del presidente del Consiglio. Dall’altra parte del mondo, su uno schermo gigantesco impiantato nel cuore dell’EXPO di Tsukuba in Giappone, le immagini devono apparire dolcemente mediterranee. (…) Quando le foto ufficiali finiscono, ecco il tradizionale: tutte le sirene entrano in funzione suono lacerante (…). La sessantreesima Campionaria è cominciata”. (Riccardo Gallo, «Corriere della Sera», 15 aprile 1985)
Se il futuro era arrivato, il Giappone si candidava dunque a interpretarlo da protagonista.
E Milano era in prima linea per accoglierlo, come Berengo Gardin osservava attraverso il suo occhio allenato. I suoi scatti restituiscono, oltre allo stupore curioso della folla, la sua particolare visione della modernità espressa dalla Fiera – in sé e per sé già una città nella città, in movimento e in continuo mutamento – obbligata a guardare verso un futuro futuribile, con un misto di attesa e apprensione.
La chiusa perfetta per descrivere il terreno emotivo di quei giorni, è dettata dalle parole perfette di Giuseppe Pontiggia sulle pagine dello stesso quotidiano: “La felicità della Fiera è di entrare nella città del Futuro, lo sgomento è di averne avuto un anticipo”.
La Fiera delle eccezioni: il colore di Berengo Gardin
A guardare sotto la superficie, dunque, un osservatore attento e paziente è in grado di cogliere tante sfumature, che raccontano aspetti inediti della Fiera e contribuiscono a evidenziarne l’eccezionalità e le inedite coincidenze.
Quello che è stato poco raccontato, ad esempio, ma di cui si conserva una piccola ma significativa testimonianza, è il prezioso fondo di diapositive realizzate da Berengo Gardin all’interno della Fiera, interamente a colori.
Chi conosce il fotografo e la sua poetica sa bene quanto la cifra di fondo del suo lavoro oscilli sempre e interamente nel dialogo infinito tra il bianco e il nero. Di più: nella realtà fotografata da Berengo Gardin, nel suo mondo – codificato fin dall’infanzia in sfumature di bianco e nero, dalla televisione, dal cinema, dall’arte dei suoi grandi maestri – non c’è stato mai, o quasi mai, spazio per il colore.
Lui stesso, stimolato sull’argomento, ebbe più volte a dire che:
“Il colore distrae. Un cielo azzurro brillante sistema molte cose (…). Il bianco e nero dà quello scarto rispetto alla visione naturale che ti costringe a guardare meglio”.
(Michele Smargiassi, «la Repubblica» 8 giugno 2013)
A guardare sotto la superficie, dunque, un osservatore attento e paziente è in grado di cogliere tante sfumature, che raccontano aspetti inediti della Fiera e contribuiscono a evidenziarne l’eccezionalità e le inedite coincidenze.
Quello che è stato poco raccontato, ad esempio, ma di cui si conserva una piccola ma significativa testimonianza, è il prezioso fondo di diapositive realizzate da Berengo Gardin all’interno della Fiera, interamente a colori.
Chi conosce il fotografo e la sua poetica sa bene quanto la cifra di fondo del suo lavoro oscilli sempre e interamente nel dialogo infinito tra il bianco e il nero. Di più: nella realtà fotografata da Berengo Gardin, nel suo mondo – codificato fin dall’infanzia in sfumature di bianco e nero, dalla televisione, dal cinema, dall’arte dei suoi grandi maestri – non c’è stato mai, o quasi mai, spazio per il colore.
Lui stesso, stimolato sull’argomento, ebbe più volte a dire che:
“Il colore distrae. Un cielo azzurro brillante sistema molte cose (…). Il bianco e nero dà quello scarto rispetto alla visione naturale che ti costringe a guardare meglio”.
(Michele Smargiassi, «la Repubblica» 8 giugno 2013)
Eppure, anche in questa scelta stilisticamente anomala di documentare un pezzo della realtà della Fiera, l’autore non rinuncia mai a contaminare la scena rappresentata con la presenza umana, raccontandola nella sua quotidianità. Negli scatti, ripresi fuori e dentro i padiglioni, si ritrova appieno e sempre la sua idea costitutiva della fotografia come testimonianza e racconto del mondo, anche se virata eccezionalmente su un asse cromatico. Il continuum è rappresentato dai soggetti, veri protagonisti dello sguardo del fotografo.
Parlando con semplicità del suo modo di intendere la fotografia, in un’intervista rilasciata alla RAI in occasione dell’uscita del libro di memorie In parole povere. Un’autobiografia con immagini (Contrasto, 2020), Berengo Gardin ricordava: “Le mie fotografie hanno due aspetti, o la foto singola che racconta qualcosa, alla Cartier-Bresson, tanto per dare un esempio, o più fotografie che raccontano qualcosa, quindi con i libri, composti di cinquanta, sessanta foto, riesci a raccontare di più una situazione, un paesaggio, una città. (…) Mi interessava l’uomo dal punto di vista sociale“.
Nonostante la sua grande attenzione alla composizione, alla geometria delle forme, è dunque sempre “il soggetto che fa la fotografia”.
Aver immortalato momenti e sguardi di chi la Fiera l’ha popolata, vissuta e prima ancora costruita, come gli operai ripresi al lavoro, in pausa, in dialogo, non è merito del fotografo. Al contrario, “è merito del soggetto fotografato o dei soggetti di comportarsi in un certo modo. L’abilità del fotografo sta nello scattare al momento giusto“.
Eppure, anche in questa scelta stilisticamente anomala di documentare un pezzo della realtà della Fiera, l’autore non rinuncia mai a contaminare la scena rappresentata con la presenza umana, raccontandola nella sua quotidianità. Negli scatti, ripresi fuori e dentro i padiglioni, si ritrova appieno e sempre la sua idea costitutiva della fotografia come testimonianza e racconto del mondo, anche se virata eccezionalmente su un asse cromatico. Il continuum è rappresentato dai soggetti, veri protagonisti dello sguardo del fotografo.
Parlando con semplicità del suo modo di intendere la fotografia, in un’intervista rilasciata alla RAI in occasione dell’uscita del libro di memorie In parole povere. Un’autobiografia con immagini (Contrasto, 2020), Berengo Gardin ricordava: “Le mie fotografie hanno due aspetti, o la foto singola che racconta qualcosa, alla Cartier-Bresson, tanto per dare un esempio, o più fotografie che raccontano qualcosa, quindi con i libri, composti di cinquanta, sessanta foto, riesci a raccontare di più una situazione, un paesaggio, una città. (…) Mi interessava l’uomo dal punto di vista sociale“.
Nonostante la sua grande attenzione alla composizione, alla geometria delle forme, è dunque sempre “il soggetto che fa la fotografia”.
Aver immortalato momenti e sguardi di chi la Fiera l’ha popolata, vissuta e prima ancora costruita, come gli operai ripresi al lavoro, in pausa, in dialogo, non è merito del fotografo. Al contrario, “è merito del soggetto fotografato o dei soggetti di comportarsi in un certo modo. L’abilità del fotografo sta nello scattare al momento giusto“.