Percorso tematico
Anatomia di una città
Quartieri e mestieri milanesi tra dopoguerra e boom economico
«Arrivò a Milano, discese in piazzale Loreto e continuò a piedi attraversando tutta la città. Le case bruciavano, fumo, polvere, soldati, (…). Vezzari arrivò a fatica nei paraggi di casa sua. Quasi non si orientava più. I crolli e gli sventramenti avevano cambiato la fisionomia del paesaggio. Ma la vide subito, laggiù, la sua casa: era ancora in piedi. Intorno montagne di macerie, mozziconi di mura maestre. Tutte, intorno a lui, erano crollate le case degli amici (…). Gli amici che andava a trovare la sera, o che venivano da lui, in pochi minuti, attraversando una piazzetta che adesso era divenuta un campo di macerie o percorrendo una via che ora non c’era più. La sua casa era rimasta in piedi, ma senza dirselo sentì che era caduta con le altre, perché la nostra casa è fatta anche delle altre case e se le mura, materialmente, non erano state colpite, il focolare era stato straziato.»[1]
Il 1943 è l’annus horribilis per Milano. Le bombe cadono sul centro storico, devastandolo. L’aspetto che la città assumerà nel tempo dipende in molta parte da questa profonda ferita, che si porta via quasi il 60% del territorio più antico. Peggio toccherà solo a Dresda.
Palazzo Marino, Piazza San Fedele, L’Ospedale filaretiano (oggi Ca’ Granda, sede dell’università di Milano) la Galleria, la Scala, Palazzo Reale, Piazza Fontana, Sant’Ambrogio, Santa Maria delle Grazie… tutti gli elementi identitari della città vengono deturpati in modo profondo. Anche la Fiera paga il suo tributo, oltre il 70 % dei padiglioni viene distrutto.
[1] Giorgio SCERBANENCO, La casa in piedi, “Corriere della Sera”, 27 agosto 1943.
«Arrivò a Milano, discese in piazzale Loreto e continuò a piedi attraversando tutta la città. Le case bruciavano, fumo, polvere, soldati, (…). Vezzari arrivò a fatica nei paraggi di casa sua. Quasi non si orientava più. I crolli e gli sventramenti avevano cambiato la fisionomia del paesaggio. Ma la vide subito, laggiù, la sua casa: era ancora in piedi. Intorno montagne di macerie, mozziconi di mura maestre. Tutte, intorno a lui, erano crollate le case degli amici (…). Gli amici che andava a trovare la sera, o che venivano da lui, in pochi minuti, attraversando una piazzetta che adesso era divenuta un campo di macerie o percorrendo una via che ora non c’era più. La sua casa era rimasta in piedi, ma senza dirselo sentì che era caduta con le altre, perché la nostra casa è fatta anche delle altre case e se le mura, materialmente, non erano state colpite, il focolare era stato straziato.»[1]
Il 1943 è l’annus horribilis per Milano. Le bombe cadono sul centro storico, devastandolo. L’aspetto che la città assumerà nel tempo dipende in molta parte da questa profonda ferita, che si porta via quasi il 60% del territorio più antico. Peggio toccherà solo a Dresda.
Palazzo Marino, Piazza San Fedele, L’Ospedale filaretiano (oggi Ca’ Granda, sede dell’università di Milano) la Galleria, la Scala, Palazzo Reale, Piazza Fontana, Sant’Ambrogio, Santa Maria delle Grazie… tutti gli elementi identitari della città vengono deturpati in modo profondo. Anche la Fiera paga il suo tributo, oltre il 70 % dei padiglioni viene distrutto.
[1] Giorgio SCERBANENCO, La casa in piedi, “Corriere della Sera”, 27 agosto 1943.
Ma Milano non si abbatte. Lo si legge orgogliosamente nelle parole del primo sindaco dopo la Liberazione, Antonio Greppi: «Molto si è distrutto, ma noi tutto ricostruiremo con pazienza e con la più fiduciosa volontà».
La ricostruzione diventa un imperativo morale. Case, palazzi, siti produttivi, luoghi della cultura sono investiti dal processo di risanamento. Il 12 settembre si apre la Fiera Campionaria, Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato italiano, commenta: “Milano inaugurando, dopo aver tanto sofferto, la Fiera si è messa all’avanguardia della ripresa economica della Nazione. Questo è oggi il suo più grande titolo di orgoglio”.
Questo lavorio intenso ne ridisegna il volto. La Stazione Centrale e l’area prospicente vengono liberate dalle industrie, le macerie si spostano fuori dall’abitato, verso nord-est, oggi parco Lambro, e verso nord-ovest, dove “sorgerà” il Monte Sella, estremo esempio di arte del territorio e di vocazione alla ripartenza post bellica.
Un terzo elemento ancora racconta il volto mutevole di quegli anni. È la città che fa da sfondo al cinema neorealista e nei cui fotogrammi si possono leggere i segni del cambiamento, come in un archivio della memoria urbana.
Ma Milano non si abbatte. Lo si legge orgogliosamente nelle parole del primo sindaco dopo la Liberazione, Antonio Greppi: «Molto si è distrutto, ma noi tutto ricostruiremo con pazienza e con la più fiduciosa volontà».
La ricostruzione diventa un imperativo morale. Case, palazzi, siti produttivi, luoghi della cultura sono investiti dal processo di risanamento. Il 12 settembre si apre la Fiera Campionaria, Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato italiano, commenta: “Milano inaugurando, dopo aver tanto sofferto, la Fiera si è messa all’avanguardia della ripresa economica della Nazione. Questo è oggi il suo più grande titolo di orgoglio”.
Questo lavorio intenso ne ridisegna il volto. La Stazione Centrale e l’area prospicente vengono liberate dalle industrie, le macerie si spostano fuori dall’abitato, verso nord-est, oggi parco Lambro, e verso nord-ovest, dove “sorgerà” il Monte Sella, estremo esempio di arte del territorio e di vocazione alla ripartenza post bellica.
Un terzo elemento ancora racconta il volto mutevole di quegli anni. È la città che fa da sfondo al cinema neorealista e nei cui fotogrammi si possono leggere i segni del cambiamento, come in un archivio della memoria urbana.
L’8 febbraio 1951 esce al cinema Miracolo a Milano. Una favola urbana che parla di povertà e di ultimi, di una città squassata da sperequazioni economiche e ingiustizie, di vecchi mestieri e quartieri fatiscenti ma in cui gli sfollati dopo la guerra trovano riscatto in un epilogo magico.
Le riprese, effettuate tra febbraio e giugno 1950, mostrano il volto di una Milano ferita ma al contempo permettono di ricostruirne la storia inseguendone le trasformazioni.
Ecco allora la via Valvassori Peroni, in cui è collocato il villaggio Brambi – la baraccopoli in cui vive il protagonista Totò – i campi incolti in cui i ragazzini giocano a pallone, via Melchiorre Gioia, viale Certosa, piazza della Repubblica percorse dal corteo funebre del personaggio di Lolotta, e ancora piazza Duomo decorata dalle insegne al neon, quinta magnifica del finale in cui gli spazzini prendono il volo sulla città, impressionando perfino Spielberg che anni dopo troverà in quella sequenza l’ispirazione per il suo ET in bicicletta nel cielo notturno.
Negli interstizi del tempo spuntano i margini del cambiamento, nelle foto la realtà, appena preludio dell’oggi: su tutto, sventramenti, partenze, arrivi, radicamenti.
È un’Italia che corre e che in Milano trova specchio. La città è pronta ad accogliere il boom tanto atteso con tutte le sue contraddizioni, nuovi palazzi e torri (Velasca e Pirelli su tutti), sfidano il cielo e provano a far dimenticare la povertà. Milano progetta, sperimenta, insegue e accoglie una popolazione in crescita attratta dal lavoro, opponendo un’edilizia popolare massiccia e durevole all’abusivismo e all’autocostruzione.
Milano diventa cantiere, motore di espansione verso la periferia, meno magica più pratica.
In bianco e nero, nell’immaginario e nelle fabbriche, mostra ovunque impalcature, recinti, armature urbane. E prolifera, anche di mestieri: muratori, lattonieri, elettricisti.
Non certo un paradiso operario, ma un purgatorio pulsante che alimenta l’idea di un futuro che pare quasi una fede, incardinata sull’impegno.
Prima che tutto cambi di nuovo, alla fine degli anni Sessanta.
C’è un luogo in cui la città mutevole trova nuovi elementi di racconto, ed è l’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano. Qui trovano spazio vedute cittadine, ritratti di milanesi operosi intenti in lavori ormai scomparsi, trame verticali dei grattacieli, disegni urbani di uno sviluppo edilizio disordinato e senza posa. Eccoli allora alcuni degli antichi mestieri, fissati dalla musicalità pratica di un dialetto che tutto spiega e accompagna, sul fondo di un tessuto sociale che mostra l’intreccio di vecchie abitudini e nuovi costumi.
L’8 febbraio 1951 esce al cinema Miracolo a Milano. Una favola urbana che parla di povertà e di ultimi, di una città squassata da sperequazioni economiche e ingiustizie, di vecchi mestieri e quartieri fatiscenti ma in cui gli sfollati dopo la guerra trovano riscatto in un epilogo magico.
Le riprese, effettuate tra febbraio e giugno 1950, mostrano il volto di una Milano ferita ma al contempo permettono di ricostruirne la storia inseguendone le trasformazioni.
Ecco allora la via Valvassori Peroni, in cui è collocato il villaggio Brambi – la baraccopoli in cui vive il protagonista Totò – i campi incolti in cui i ragazzini giocano a pallone, via Melchiorre Gioia, viale Certosa, piazza della Repubblica percorse dal corteo funebre del personaggio di Lolotta, e ancora piazza Duomo decorata dalle insegne al neon, quinta magnifica del finale in cui gli spazzini prendono il volo sulla città, impressionando perfino Spielberg che anni dopo troverà in quella sequenza l’ispirazione per il suo ET in bicicletta nel cielo notturno.
Negli interstizi del tempo spuntano i margini del cambiamento, nelle foto la realtà, appena preludio dell’oggi: su tutto, sventramenti, partenze, arrivi, radicamenti.
È un’Italia che corre e che in Milano trova specchio. La città è pronta ad accogliere il boom tanto atteso con tutte le sue contraddizioni, nuovi palazzi e torri (Velasca e Pirelli su tutti), sfidano il cielo e provano a far dimenticare la povertà. Milano progetta, sperimenta, insegue e accoglie una popolazione in crescita attratta dal lavoro, opponendo un’edilizia popolare massiccia e durevole all’abusivismo e all’autocostruzione.
Milano diventa cantiere, motore di espansione verso la periferia, meno magica più pratica.
In bianco e nero, nell’immaginario e nelle fabbriche, mostra ovunque impalcature, recinti, armature urbane. E prolifera, anche di mestieri: muratori, lattonieri, elettricisti.
Non certo un paradiso operario, ma un purgatorio pulsante che alimenta l’idea di un futuro che pare quasi una fede, incardinata sull’impegno.
Prima che tutto cambi di nuovo, alla fine degli anni Sessanta.
C’è un luogo in cui la città mutevole trova nuovi elementi di racconto, ed è l’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano. Qui trovano spazio vedute cittadine, ritratti di milanesi operosi intenti in lavori ormai scomparsi, trame verticali dei grattacieli, disegni urbani di uno sviluppo edilizio disordinato e senza posa. Eccoli allora alcuni degli antichi mestieri, fissati dalla musicalità pratica di un dialetto che tutto spiega e accompagna, sul fondo di un tessuto sociale che mostra l’intreccio di vecchie abitudini e nuovi costumi.
Come eravamo
Cominciamo dall’arrotino, il moletta, che affilava utensili e riparava forbici, rasoi, coltelli girando la città con un carretto e una mola a pedale, seguito nelle strade dal venditore di collane di castagne, el fironatt – per certi versi simile al maronatt, che le vendeva arrostite nei cartocci.
A girare tra le vie erano anche gli addetti all’accensione e allo smorzamento dei lampioni a olio e a gas (lampionnée) o gli spazzacamini, che tenevano pulite le canne fumarie da incrostazioni e fuliggine. Altrove, sui Navigli, c’erano le lavandaie, chine sui brellin, le assi di legno, a strofinare i panni sulle brelle di pietra, o i conciatori di pelle, che inquinavano il canale Vetra e si dannavano la salute in un’epoca in cui le norme a tutela dei lavoratori erano di là dal venire.
E poi lo stagnino, el magnan, per le riparazioni delle pentole in rame, l’ombrellaio, che girava in bicicletta con gli arnesi per riparare manici, stecche, tele o el cadregatt, che si vedeva spesso in zona Duomo, a riparare sedie impagliate, e il manovratore dei tram, manetta, o il travier, il bigliettaio.
A vendere, poi, si vendeva quasi ogni cosa: il pane e la farina, portati dal garzone dei panettieri, il prestinèe, a piedi o in bici. Il ghiaccio, sui carretti di legno del giasee (in “pani” di un metro e quasi 25 chili l’uno), o ancora il carbone, smerciato dal sciostree negli scantinati lungo i Navigli e la polenta, che lungo l’antica corsia dei Servi era venduta dai polentatt.
È la città tutta a portare le tracce degli antichi mestieri, come il borgo dei furmagiatt, i formaggiai che occupavano la zona tra il Naviglio pavese e corso San Gottardo, o quello degli scigulatt, (venditori di cipolle, e per estensione, gli ortolani) del quartiere Sarpi, o gli armorari (produttori di armi bianche) che gravitavano con tanti altri attorno ai centri di Piazza Mercanti e del Verziere.
Ci sono, a leggere le storie cittadine, luoghi che questi mestieri ancora celebrano, come la Madonna dei tencitt (i carbonai) di Via Laghetto e opere letterarie e artistiche che li immortalano per sempre nel ricordo (come il prestinèe del “Forno delle Grucce” nei Promessi Sposi).
Per tutti gli altri (barbieri, calzolai, farmacisti – gli spezieri – macellari e salumieri, droghieri, lattai, fruttivendoli …) la città ha fatto da quinta e casa, accompagnandone la lenta trasformazione nei mestieri odierni. Che a volte resistono, o ritornano, contro l’omologazione della grande distribuzione che tutto ha livellato, non solo i prezzi.
Cominciamo dall’arrotino, il moletta, che affilava utensili e riparava forbici, rasoi, coltelli girando la città con un carretto e una mola a pedale, seguito nelle strade dal venditore di collane di castagne, el fironatt – per certi versi simile al maronatt, che le vendeva arrostite nei cartocci.
A girare tra le vie erano anche gli addetti all’accensione e allo smorzamento dei lampioni a olio e a gas (lampionnée) o gli spazzacamini, che tenevano pulite le canne fumarie da incrostazioni e fuliggine. Altrove, sui Navigli, c’erano le lavandaie, chine sui brellin, le assi di legno, a strofinare i panni sulle brelle di pietra, o i conciatori di pelle, che inquinavano il canale Vetra e si dannavano la salute in un’epoca in cui le norme a tutela dei lavoratori erano di là dal venire.
E poi lo stagnino, el magnan, per le riparazioni delle pentole in rame, l’ombrellaio, che girava in bicicletta con gli arnesi per riparare manici, stecche, tele o el cadregatt, che si vedeva spesso in zona Duomo, a riparare sedie impagliate, e il manovratore dei tram, manetta, o il travier, il bigliettaio.
A vendere, poi, si vendeva quasi ogni cosa: il pane e la farina, portati dal garzone dei panettieri, il prestinèe, a piedi o in bici. Il ghiaccio, sui carretti di legno del giasee (in “pani” di un metro e quasi 25 chili l’uno), o ancora il carbone, smerciato dal sciostree negli scantinati lungo i Navigli e la polenta, che lungo l’antica corsia dei Servi era venduta dai polentatt.
È la città tutta a portare le tracce degli antichi mestieri, come il borgo dei furmagiatt, i formaggiai che occupavano la zona tra il Naviglio pavese e corso San Gottardo, o quello degli scigulatt, (venditori di cipolle, e per estensione, gli ortolani) del quartiere Sarpi, o gli armorari (produttori di armi bianche) che gravitavano con tanti altri attorno ai centri di Piazza Mercanti e del Verziere.
Ci sono, a leggere le storie cittadine, luoghi che questi mestieri ancora celebrano, come la Madonna dei tencitt (i carbonai) di Via Laghetto e opere letterarie e artistiche che li immortalano per sempre nel ricordo (come il prestinèe del “Forno delle Grucce” nei Promessi Sposi).
Per tutti gli altri (barbieri, calzolai, farmacisti – gli spezieri – macellari e salumieri, droghieri, lattai, fruttivendoli …) la città ha fatto da quinta e casa, accompagnandone la lenta trasformazione nei mestieri odierni. Che a volte resistono, o ritornano, contro l’omologazione della grande distribuzione che tutto ha livellato, non solo i prezzi.