Percorso tematico
150 anni dei jeans Levi’s
L’indumento che ha cambiato (un po’) il mondo
“I want to die with my blue jeans on” Andy Warhol
In principio non fu il jeans.
Ma è come se lo fosse stato: non si conosce indumento che abbia attraversato così tante epoche dalla sua comparsa da far pensare che fosse esistito anche un mondo “senza”.
Tra tutti gli aggettivi usati per descriverne la storia, il più efficace è “longevo”. Perché ha a che fare con il senso del tempo e la trasformazione della società, le cui tracce sono a disposizione di tutti, impresse nelle immagini di una memoria collettiva.
Il motivo è presto detto: i centocinquant’anni di vita dei jeans, compiuti nel 2023, raccontano non solo la storia di un capo di abbigliamento ma quella di una comunità dai confini molto ampi.
Il primo atto si compie nel 1873, il 20 maggio. Il sarto Jacob Williams Davis, emigrato lettone (nato a Riga nel 1834 e dagli anni Cinquanta di stanza a Reno, Nevada), e il commerciante di tessuti Levi Strauss, emigrato bavarese, depositano a San Francisco il brevetto n. 139.12, ottenendo la patente di registrazione del pantalone “Jeans XX”. Lo fanno assieme, in stile pionieristico, perché la cifra necessaria, sessantotto dollari dell’epoca, non è nelle tasche di Davis.
L’idea registrata è semplice: un nuovo sistema di rinforzo per migliorare la tenuta nel tempo delle cuciture più deboli dei pantaloni da lavoro, realizzati in spessa tela di cotone[1], da puntellare con rivetti di rame – gli stessi in uso nella copertura di carrozze e sottosella.
Le prime due fabbriche aprono i battenti in California nel 1886: i pantaloni prodotti (501, dal numero della partita) usciranno da quel momento in poi marchiati con il logo dei due cavalli sull’etichetta in pelle cucita sulla cintura.
Dopo un’iniziale flessione delle vendite, le migliorie apportate negli anni Venti dai fratelli Stern, nipoti di Davis, riportano i Levi’s 501 in auge. Per tutto il decennio successivo, i pantaloni diventano il simbolo della frontiera ad Ovest, indumento per eccellenza dei cowboy. Prima della fine del decennio i jeans sbarcano anche a Hollywood: li indossa per la prima volta, risvoltati sulle caviglie, il John Wayne di Ombre Rosse.
La consacrazione come oggetto iconico si completa negli anni Cinquanta. A indossarli questa volta è un’altra leggenda: Marlon Brando, che nel 1953, con Il Selvaggio, diventa il simbolo della nuova generazione.
Da quel momento in poi, è una poderosa cavalcata nel mito e nella storia.
Gli anni Sessanta, intrisi di energia e di sottoculture, sdoganano i jeans come abiti di tutti i giorni, meglio ancora se della lotta e della protesta: dalle copertine dei dischi dei cantautori americani (Bob Dylan, Freewheelin’, 1963, The Beatles, Abbey Road, 1969, Rolling Stones, Sticky Fingers, 1971) ai concerti (Woodstock, 1969) alle marce di protesta contro la guerra in Vietnam (1969) fino ai Moods e ai Rockers in Gran Bretagna.
Se è vero che forse il signor Levi non li indossò mai nel corso della vita, a farlo furono praticamente tutti, nel cinema e non: da Jane Russell a Grace Kelly, da Doris Day a Jackie Kennedy, nel frattempo divenuta Onassis, smettendo al contempo cognome e abiti Chanel per indossare il denim.
A consacrali nell’immaginario collettivo contribuisce persino Marylin Monroe (li indosserà ne La magnifica preda, di O. Preminger, 1954 e Gli spostati, di J. Houston, 1961). A sancirne l’eternità ci pensano però le star del rock e del pop (da Presley a Dylan, dai Ramones a Joe Strummer, da Bruce Springsteen a Madonna).
Il Times, un anno prima della fine del secolo, li promuove definitivamente a capo d’abbigliamento del XX secolo.
Where do you get
Those blue, blue jeans
Faded, patched secret so tight?
Where do you get
That walk oh so lean?
The Who (I’m One, 1971)
[1] Il denim, dal francese serge de nîmes, sargia di Nîmes, dal nome delle stoffe prodotte dei fabbricanti francesi nel XVI secolo caratterizzate da un intreccio molto resistente, a rigatura diagonale.
In principio non fu il jeans.
Ma è come se lo fosse stato: non si conosce indumento che abbia attraversato così tante epoche dalla sua comparsa da far pensare che fosse esistito anche un mondo “senza”.
Tra tutti gli aggettivi usati per descriverne la storia, il più efficace è “longevo”. Perché ha a che fare con il senso del tempo e la trasformazione della società, le cui tracce sono a disposizione di tutti, impresse nelle immagini di una memoria collettiva.
Il motivo è presto detto: i centocinquant’anni di vita dei jeans, compiuti nel 2023, raccontano non solo la storia di un capo di abbigliamento ma quella di una comunità dai confini molto ampi.
Il primo atto si compie nel 1873, il 20 maggio. Il sarto Jacob Williams Davis, emigrato lettone (nato a Riga nel 1834 e dagli anni Cinquanta di stanza a Reno, Nevada), e il commerciante di tessuti Levi Strauss, emigrato bavarese, depositano a San Francisco il brevetto n. 139.12, ottenendo la patente di registrazione del pantalone “Jeans XX”. Lo fanno assieme, in stile pionieristico, perché la cifra necessaria, sessantotto dollari dell’epoca, non è nelle tasche di Davis.
L’idea registrata è semplice: un nuovo sistema di rinforzo per migliorare la tenuta nel tempo delle cuciture più deboli dei pantaloni da lavoro, realizzati in spessa tela di cotone[1], da puntellare con rivetti di rame – gli stessi in uso nella copertura di carrozze e sottosella.
Le prime due fabbriche aprono i battenti in California nel 1886: i pantaloni prodotti (501, dal numero della partita) usciranno da quel momento in poi marchiati con il logo dei due cavalli sull’etichetta in pelle cucita sulla cintura.
Dopo un’iniziale flessione delle vendite, le migliorie apportate negli anni Venti dai fratelli Stern, nipoti di Davis, riportano i Levi’s 501 in auge. Per tutto il decennio successivo, i pantaloni diventano il simbolo della frontiera ad Ovest, indumento per eccellenza dei cowboy. Prima della fine del decennio i jeans sbarcano anche a Hollywood: li indossa per la prima volta, risvoltati sulle caviglie, il John Wayne di Ombre Rosse.
La consacrazione come oggetto iconico si completa negli anni Cinquanta. A indossarli questa volta è un’altra leggenda: Marlon Brando, che nel 1953, con Il Selvaggio, diventa il simbolo della nuova generazione.
Da quel momento in poi, è una poderosa cavalcata nel mito e nella storia.
Gli anni Sessanta, intrisi di energia e di sottoculture, sdoganano i jeans come abiti di tutti i giorni, meglio ancora se della lotta e della protesta: dalle copertine dei dischi dei cantautori americani (Bob Dylan, Freewheelin’, 1963, The Beatles, Abbey Road, 1969, Rolling Stones, Sticky Fingers, 1971) ai concerti (Woodstock, 1969) alle marce di protesta contro la guerra in Vietnam (1969) fino ai Moods e ai Rockers in Gran Bretagna.
Se è vero che forse il signor Levi non li indossò mai nel corso della vita, a farlo furono praticamente tutti, nel cinema e non: da Jane Russell a Grace Kelly, da Doris Day a Jackie Kennedy, nel frattempo divenuta Onassis, smettendo al contempo cognome e abiti Chanel per indossare il denim.
A consacrali nell’immaginario collettivo contribuisce persino Marylin Monroe (li indosserà ne La magnifica preda, di O. Preminger, 1954 e Gli spostati, di J. Houston, 1961). A sancirne l’eternità ci pensano però le star del rock e del pop (da Presley a Dylan, dai Ramones a Joe Strummer, da Bruce Springsteen a Madonna).
Il Times, un anno prima della fine del secolo, li promuove definitivamente a capo d’abbigliamento del XX secolo.
Where do you get
Those blue, blue jeans
Faded, patched secret so tight?
Where do you get
That walk oh so lean?
The Who (I’m One, 1971)
[1] Il denim, dal francese serge de nîmes, sargia di Nîmes, dal nome delle stoffe prodotte dei fabbricanti francesi nel XVI secolo caratterizzate da un intreccio molto resistente, a rigatura diagonale.
E in Italia?
Scrive la Treccani, con le parole del linguista Giovanni Battista Boccardo, che si deve aspettare il 1956 per assistere alla diffusione nella lingua italiana dell’espressione blue jeans.
L’anno è dirimente: ad aprile esce al cinema Gioventù Bruciata; il successo della pellicola e del suo protagonista, James Dean, è travolgente, come lo spirito di imitazione che suscita. Sempre nel 1956, il 30 agosto, si registra la prima occorrenza del termine nella pubblicistica interna, su Oggi.
Il terreno più fertile è ovviamente tra le nuove generazioni, di cui i jeans diventano velocemente emblema. Il fascino che arriva dall’America è suadente come la controcultura che si portano appresso.
Non è un processo indolore, come nessun cambiamento. Simbolo di rottura delle regole, i jeans vengono osteggiati, (assieme a chi li indossa, i Teddy Boys, a scorrere i disegni di legge contro il teppismo giovanile), criticati, addirittura proibiti in alcune scuole della penisola.
Scrive la Treccani, con le parole del linguista Giovanni Battista Boccardo, che si deve aspettare il 1956 per assistere alla diffusione nella lingua italiana dell’espressione blue jeans.
L’anno è dirimente: ad aprile esce al cinema Gioventù Bruciata; il successo della pellicola e del suo protagonista, James Dean, è travolgente, come lo spirito di imitazione che suscita. Sempre nel 1956, il 30 agosto, si registra la prima occorrenza del termine nella pubblicistica interna, su Oggi.
Il terreno più fertile è ovviamente tra le nuove generazioni, di cui i jeans diventano velocemente emblema. Il fascino che arriva dall’America è suadente come la controcultura che si portano appresso.
Non è un processo indolore, come nessun cambiamento. Simbolo di rottura delle regole, i jeans vengono osteggiati, (assieme a chi li indossa, i Teddy Boys, a scorrere i disegni di legge contro il teppismo giovanile), criticati, addirittura proibiti in alcune scuole della penisola.
“Il diavolo a fior di pelle”
Dalla fine degli anni Sessanta, il processo di svecchiamento è però in atto ormai anche in Italia: i beatnick, gli hippie, la contestazione si fanno strada velocemente, assieme al cambio dei modelli, la dissacrazione delle forme, il superamento dei tabù religiosi e sessuali.
I giovani diventano una categoria sociale, definibile e distinguibile. E, presto, anche un target di consumo ben specifico.
Davanti alla liberazione dei costumi e del linguaggio, compreso quello pubblicitario, si arriva a invocare persino la censura. Se gli anni Settanta sono il terreno vergine di creativi come Oliviero Toscani ed Emanuele Pirella, i cui slogan provocanti arrivano fino in Vaticano (dal celebre “non avrai altro jeans al di fuori di me” all’indimenticabile “Chi mi ama mi segua”, sui glutei semicoperti della modella Donna Jordan, per i Jesus Jeans), per difendere i jeans e la libertà di pensiero si scomoda anche Pasolini, dalle colonne del Corsera (“tra l’«Jesus» del Vaticano e l’«Jesus» dei blue-jeans, c’è stata una lotta. […] Il Gesù del Vaticano ha perso[1].”)
Ma le battaglie contro il vento del cambiamento sono perse in partenza: i jeans si diffondono in tutto il mondo, dal Sol Levante ai Paesi comunisti. Nella società italiana arrivano ad abitare la lingua, i corpi e l’immaginario. E sono ovunque, dalle copertine di Vogue ai versi delle canzoni, dalle cabine dei paninari di piazza San Babila alle aule della politica (Bettino Craxi ci andrà persino al Quirinale, bacchettato dal presidente Pertini).
Ne sarebbe stato orgoglioso forse Garibaldi, i cui pantaloni in tela di jeans, datati 1860, sono conservati al Museo Centrale del Risorgimento a Roma.
(‘Sti blue jeans i’ mo’ nun saccio levà) mannaggia
(‘Sti blue jeans so’ stritt’ e comme se fa?) Mannaggia
Renzo Arbore (Smorza è Lights, 1981)
[1] Cfr. In Sviluppo e progresso, in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti, Mondadori, Milano 1999
Dalla fine degli anni Sessanta, il processo di svecchiamento è però in atto ormai anche in Italia: i beatnick, gli hippie, la contestazione si fanno strada velocemente, assieme al cambio dei modelli, la dissacrazione delle forme, il superamento dei tabù religiosi e sessuali.
I giovani diventano una categoria sociale, definibile e distinguibile. E, presto, anche un target di consumo ben specifico.
Davanti alla liberazione dei costumi e del linguaggio, compreso quello pubblicitario, si arriva a invocare persino la censura. Se gli anni Settanta sono il terreno vergine di creativi come Oliviero Toscani ed Emanuele Pirella, i cui slogan provocanti arrivano fino in Vaticano (dal celebre “non avrai altro jeans al di fuori di me” all’indimenticabile “Chi mi ama mi segua”, sui glutei semicoperti della modella Donna Jordan, per i Jesus Jeans), per difendere i jeans e la libertà di pensiero si scomoda anche Pasolini, dalle colonne del Corsera (“tra l’«Jesus» del Vaticano e l’«Jesus» dei blue-jeans, c’è stata una lotta. […] Il Gesù del Vaticano ha perso[1].”)
Ma le battaglie contro il vento del cambiamento sono perse in partenza: i jeans si diffondono in tutto il mondo, dal Sol Levante ai Paesi comunisti. Nella società italiana arrivano ad abitare la lingua, i corpi e l’immaginario. E sono ovunque, dalle copertine di Vogue ai versi delle canzoni, dalle cabine dei paninari di piazza San Babila alle aule della politica (Bettino Craxi ci andrà persino al Quirinale, bacchettato dal presidente Pertini).
Ne sarebbe stato orgoglioso forse Garibaldi, i cui pantaloni in tela di jeans, datati 1860, sono conservati al Museo Centrale del Risorgimento a Roma.
(‘Sti blue jeans i’ mo’ nun saccio levà) mannaggia
(‘Sti blue jeans so’ stritt’ e comme se fa?) Mannaggia
Renzo Arbore (Smorza è Lights, 1981)
[1] Cfr. In Sviluppo e progresso, in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti, Mondadori, Milano 1999
La Fiera come incubatore di costume
Corso della loro storia. A documentarne i passaggi fondamentali è sicuramente il ricco corpus di testimonianze visive prodotte nei decenni, che hanno il merito di raccontare non solo come fosse la società prima, ma anche come sia diventata oggi quello che è.
Iconici e significativi sono, tra tutti, gli scatti che Gianni Berengo Gardin realizza nei corridoi della Grande Fiera di Milano, nel 1985.
Perché rappresentano il processo di metamorfosi in atto, registrata non solo nelle vedute aeree del pubblico della manifestazione (i cui abiti non sono più gli eleganti tagli di sartoria dei decenni precedenti) ma anche nella trasformazione delle abitudini e dei comportamenti: il jeans è ormai abito da lavoro degli operai, divisa dei giovani visitatori, capo prêt à porter sulle passerelle.
Fedele al suo mandato, la Fiera si conferma anche in questo passaggio uno dei luoghi privilegiati per interpretare i cambiamenti della società e dei consumi del Paese.
Sul fronte degli scatti glamour, invece, nessuno meglio di Giovanni Gastel saprà raccontare, a partire dalle copertine patinate, il fascino del Made in Italy nascente e la parabola d’oro del denim.
Corso della loro storia. A documentarne i passaggi fondamentali è sicuramente il ricco corpus di testimonianze visive prodotte nei decenni, che hanno il merito di raccontare non solo come fosse la società prima, ma anche come sia diventata oggi quello che è.
Iconici e significativi sono, tra tutti, gli scatti che Gianni Berengo Gardin realizza nei corridoi della Grande Fiera di Milano, nel 1985.
Perché rappresentano il processo di metamorfosi in atto, registrata non solo nelle vedute aeree del pubblico della manifestazione (i cui abiti non sono più gli eleganti tagli di sartoria dei decenni precedenti) ma anche nella trasformazione delle abitudini e dei comportamenti: il jeans è ormai abito da lavoro degli operai, divisa dei giovani visitatori, capo prêt à porter sulle passerelle.
Fedele al suo mandato, la Fiera si conferma anche in questo passaggio uno dei luoghi privilegiati per interpretare i cambiamenti della società e dei consumi del Paese.
Sul fronte degli scatti glamour, invece, nessuno meglio di Giovanni Gastel saprà raccontare, a partire dalle copertine patinate, il fascino del Made in Italy nascente e la parabola d’oro del denim.